Bondone, cima Verde |
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Giro tra i cavalli degli ungheresi e cerco il capitano; lo chiamo per
le piste che portano nella steppa. Nessuno mi risponde. Le stelle mi straziano
la carne, mi viene da piangere e da maledire. Vorrei istintivamente uccidere
qualcuno. Pesto con ira la neve; agito le braccia; faccio crocchiare i
denti; i sassi ballano nella gola. Calmati! Non impazzire! Calma! Ritorna
nell'isba del tuo plotone, ritorna a dormire. Chissà cosa ti attenderà
domani. Domani! Ma è già l'alba, laggiù incomincia
il crepuscolo. Le mattine al caposaldo quando rientravo nella tana calda
ed era pronto il caffè; le mattine prima di venir soldato quando
andavo per legna e sentivo il canto degli urogalli, le mattine che salivo
alle malghe con il mulo grigio. E lei starà dormendo tra lenzuola
di bucato, nella sua città di mare, e dal mare entrerà nella
stanza il primo chiarore dell'alba. Ma sarebbe meglio buttarsi su quel
mucchio di neve e dormire, chissà come sarà morbida. All'erta,
sta' all'erta, cerca l'isba del tuo plotone. Stringo i denti e i pugni
e dò calci nella neve. Ritrovo l'isba, entro e mi lascio cadere
fra i corpi caldi dei miei compagni.
..........
Il tenente entra nell'isba più vicina. Sono povere isbe, più
povere delle solite, piccole e fredde anche a guardarle. Ma il tenente
esce subito impugnando la pistola. Mi grida di correre da lui. Vado ed
entro con una bomba in mano. Vi sono due donne e dei bambini e vuole che
li leghi. Penso che il tenente stia proprio perdendo la ragione. Le donne
e i bambini hanno capito e mi guardano con occhi terrorizzati. Piangendo
si rivolgono a me parlando in russo. Che voce avevano le donne e i bambini!
Sembrava il dolore di tutta l'umanità e la speranza. E la rivolta
contro tutto il male. Prendo per un braccio il tenente ed usciamo.
..........
Come passano lente le ore; il freddo
aumenta con l'avvicinarsi della sera. Lassù non si è deciso
ancora niente e gli spari si fanno sempre più radi, anche le raffiche
sembrano stanche. Il cielo è tutto verde-celeste, immobile come
il ghiaccio, gli alpini parlano poco e sottovoce fra di loro. Giuanin
mi si avvicina, mi guarda da sotto la coperta che si è tirato sulla
testa, non dice niente e torna via. Vorrei chiamarlo e gridargli: «Perché
non mi chiedi se arriveremo a baita?» È freddo e si fa sera,
la neve e il cielo sono uguali. A quest'ora nel mio paese le
vacche escono dalle stalle e vanno a bere nel buco fatto nel ghiaccio
delle pozze. Dalle stalle escono il vapore e l'odore di letame e latte;
i dorsi delle vacche fumano e i camini fumano. Il sole fa tutto rosso:
la neve, le nubi, le montagne e i volti dei bambini che giocano con le
slitte sui mucchi di neve: mi vedo anch'io tra quei bambini. E le case
sono calde e le vecchie vicino alle stufe aggiustano le calze dei ragazzi.
Ma anche laggiù in quell'estremo lembo della steppa c'era un angolo
di caldo. La neve era intatta, l'orizzonte viola, e gli alberi si alzavano
verso il cielo: betulle bianche e tenere e sotto queste un gruppetto di
isbe. Pareva che non ci fosse la guerra laggiù; erano fuori del
tempo e fuori del mondo, tutto era come mille anni fa e come forse tra
mille anni ancora. Lì aggiustavano gli aratri e le cinghie dei
cavalli; i vecchi fumavano, le donne filavano la canapa. Non ci poteva
essere la guerra sotto quel cielo viola e quelle betulle bianche, in quelle
isbe lontane nella steppa. Pensavo: «Voglio anch'io andare in quel
caldo, e poi si scioglierà la neve, le betulle si faranno verdi
e ascolterò la terra germogliare. Andrò nella steppa con
le vacche, e alla sera, fumando macorka, ascolterò cantare le quaglie
nel campo di grano. D'autunno taglierò a fette le mele e le pere
per fare gli sciroppi e aggiusterò le cinghie dei cavalli e gli
aratri e diventerò vecchio senza che mai ci sia stata la guerra.
Dimenticherò tutto e crederò di essere sempre stato là».
Guardavo in quel caldo e si faceva sempre più sera.
Ma poi sentii un ufficiale che chiamava adunata e sorrisi. - Adunata Vestone.
- Cinquantacinque adunata! -
.....
Passando per un villaggio vediamo dei cadaveri davanti agli usci delle
isbe. Sono donne e ragazzi. Forse sorpresi così nel sonno perché
sono in camicia. Le gambe e le braccia nude sono più bianche della
neve, sembrano gigli su un altare. Una donna è nuda sulla neve,
più bianca della neve e vicino la neve è rossa. Non voglio
guardare, ma loro ci sono anche se io non guardo. Una giovane è
con le braccia aperte, e ha sul viso un lino bianco. Ma perché
questo? Chi è stato? E si continua a camminare.
.......
Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono
d'occhio. Corro e busso alla porta di un'isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati.
Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito.
Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio
di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi
a mezz'aria. - Mniè khocetsia iestj, - dico. Vi sono anche delle
donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo,
dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi
metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I
soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano.
Nessuno fiata. C'è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto.
E d'ogni mia boccata. -Spaziba. - dico quando ho finito. E la donna prende
dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta, - mi risponde con semplicità.
I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano
dell'ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra,
è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti
di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi da il favo
e io esco.
Cosi è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano,
a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev'esserci
stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono
naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi
o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come
me, lo sentivo. In quell'isba si era creata tra me e i soldati russi,
e le donne e i bambini un'armonia che non era un armistizio. Era qualcosa
di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l'uno
per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini
a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle
donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti.
Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci
siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo
una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio
dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.
.....
L'isba dove mi accettarono era spaziosa e pulita, e abitata da una famiglia
di gente giovane e semplice. Mi preparai in un angolo sotto la finestra
la cuccia per dormire. Passai sdraiato su un po' di paglia tutto il tempo
che rimasi in quella capanna; sempre lì, sdraiato per ore e ore a guardare
il soffitto. Nel pomeriggio c'erano nell'isba solo una ragazza e un neonato.
La ragazza si sedeva vicino alla culla. La culla era appesa al soffitto
con delle funi e dondolava come una barca ogni volta che il bambino si
muoveva. La ragazza si sedeva li vicino, e per tutto il pomeriggio filava
la canapa con il mulinello a pedale. Io guardavo il soffitto e il rumore
del mulinello riempiva il mio essere come il rumore di una cascata gigantesca.
Qualche volta la osservavo e il sole di marzo, che entrava tra le tendine,
faceva sembrare oro la canapa e la ruota mandava mille bagliori. Ogni
tanto il bambino piangeva e allora la ragazza spingeva dolcemente la culla
e cantava. Io ascoltavo e non dicevo mai una parola. Qualche pomeriggio
venivano le sue amiche delle case vicine. Portavano il loro mulinello
e filavano con lei. Parlavano tra loro dolcemente e sottovoce, come se
avessero timore di disturbarmi.
Parlavano armoniosamente tra loro e le ruote dei mulinelli rendevano più
dolci le voci. Questa è stata la medicina. Cantavano anche. Erano
le loro vecchie canzoni di sempre: Stienka Rasin, Natalka Poltawka e i
loro antichi motivi di balli. Guardavo per ore e ore il soffitto e ascoltavo.
Alla sera mi chiamavano per mangiare con loro. Mangiavamo tutti nel medesimo
recipiente con religiosità e raccoglimento. Ritornava la madre;
ritornava il padre; ritornava il ragazzo. Solo alla sera ritornavano il
padre e il ragazzo; si fermavano poco, ogni tanto guardavano dalla finestra
e poi uscivano insieme sino alla sera dopo. Una sera che non vennero la
ragazza pianse. Vennero al mattino... Il bambino dormiva nella culla di
legno, che dondolava leggermente sospesa al soffitto; il sole entrava
dalla finestra e rendeva la canapa come oro; la ruota del mulinello mandava
mille bagliori; il suo rumore sembrava quello di una cascata; e la voce
della ragazza era piana e dolce in mezzo a quel rumore.
Preblic (Austria),
gennaio 1944 - Asiago, gennaio 1947.
Mario Rigoni Stern, Il
sergente nella neve (Ricordi della ritirata di Russia); Ritorno sul
Don, Einaudi, Torino 1973
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